Individuazione
Trimestrale di psicologia analitica e filosofia sperimentale a cura dell'Associazione GEA
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Settembre 1996 Pag. 10° Silvia Montefoschi
 TEORIA 

IL DUBBIO AMLETICO DI DIO

Il conflitto tra il desiderio di esserci e quello di non esserci

"Sappiamo dalla Kabala che quando Ein-Sof, l’essere infinito, si concentrò in un punto e di lì, saltando su se stesso si guardò, si compiacque della propria "autoarchia".
Sappiamo dalla Genesi che ogni atto della creazione divina, da quello che dette nascita alla luce a quello che dette nascita all’uomo, fu accompagnato da un compiacimento di Dio per quanto aveva creato da se stesso che a lui apparve "buono".
Ein-Sof che guarda a se stesso e il Dio della Genesi che crea il mondo estraendolo da sè, è l’essere che si conosce nella forma in cui si manifesta.
Essendo l’essere uno, non poteva, nel vedersi, che vedere l’unica forma della sua manifestazione; non potendo pertanto valutare la bellezza o meno di questa forma confrontandola ad altra, ciò di cui si compiacque fu il suo stesso manifestarsi. E, poichè il manifestarsi era il suo esserci, all’essere piacque di esserci, e, poichè il suo esserci è il suo guardarsi, all’essere piacque guardarsi.
Ciò ci fa pensare che nell’uomo il narcisismo e l’attitudine riflessiva, che gli concede di conoscersi e di conoscere il mondo, portino la stessa radice: la riflessione dell’essere su se stesso.
L’errore di Narciso, o meglio l’errore dell’essere in Narciso, sta nel fatto che nel rispecchiarsi, e quindi nel riflettere su di sè, egli coglie la sua immagine entro il limite di un particolare (il soggetto riflessivo individuale) e crede di cogliere il tutto in quella parte.
Errore del resto inevitabile, in quanto conseguente al limite di visione che l’essere ha raggiunto nel sistema conoscitivo che Narciso incarna, quello del soggetto umano che coglie se stesso solamente nel limite della propria individualità; anche se la visione di sè come punto momento del continuo fluire dell’essere si dà già in questo sistema come potenziale.
Sembra inoltre che il compiacersi dell’essere al suo primo vedersi fosse essenziale al persistere dell’esserci e quindi all’esistere di tutto l’esistente.
Se per ipotesi l’essere nel suo vedersi essere non avesse amato questa condizione di presenza, avrebbe potuto tornare nell’inconsapevolezza di se stesso.
E poichè ciò che lo ha mantenuto nella consapevolezza di sè, è la distanza che aveva preso da se stesso per guardare a se stesso, per tornare a non vedersi avrebbe dovuto riannullare la distanza con il ricongiungimento del conoscente al conosciuto.
D’altra parte avrebbe potuto accadergli ciò che accadde poi a Narciso, che l’amore per se stesso conoscente rispecchiato nel conosciuto lo portasse a ricongiungersi immediatamente con quest’ultimo e ad annullare ugualmente lo spazio conoscitivo che gli aveva consentito di conoscersi.
Nell’essere dovette instaurarsi quella contraddizione, che ogni uomo riconosce in sè, tra la tendenza a riannullare la distanza tra sè e se stesso per tornare al buio (fino al suicidio) e il desiderio di vedere che lo costringe a distanziarsi progressivamente da sè per procedere nella conoscenza.
L’essere dovette reggere una grande tensione e, poichè prevalse il desiderio di vedersi, fu lui che si impose il tabù dell’incesto, che divenne il principio universale che sostiene l’esserci del nostro universo.
Il tabù dell’incesto, quale forza che sospinge i simili a farsi diversi e risospinge i diversi a farsi simili solo a condizione di una ulteriore separazione, è il desiderio stesso dell’essere a esserci; desiderio che costringe la sua stessa potenzialità conoscitiva che si dà all’infinito a porsi infinitamente in atto.
Ma fintanto che nell’essere permane la separazione tra il visto e il veggente, permane la contraddizione tra la tendenza del veggente a ricongiungersi al se stesso visto che a lui piace e la necessità di mantenere la distanza dallo stesso per continuare a vedersi e così a piacersi.
In quel compiacersi di Dio al suo vedersi non si dà allora soltanto la garanzia all’esserci dell’esistente, ma anche la radice del dubbio circa la bontà dell’esserci o di non esserci; dubbio che assilla l’uomo come dovette assillare Dio.
Questo dubbio però non è di certo un prodotto della ragione, poichè la ragione non ha motivi da addurre a favore dell’una o dell’altra condizione, ma è piuttosto espressione di uno stato emozionale che è quello del dolore che la stessa situazione conflittuale porta con sè.
Sembrerebbe allora potersi arguire che se ciò che suscita il desiderio di non esserci è la sofferenza inerente alla condizione dell’esserci, e se questa sofferenza non può derivare all’essere (essendo l’essere uno) se non dal suo stesso conflitto tra esserci e non esserci, basterebbe eliminare uno dei due termini del conflitto, e quindi, necessariamente ai fini dell’esserci, il desiderio del non esserci, per realizzare infine un esserci privo di contraddizione e che non può più pertanto essere messo in questione.
Ma il desiderio di non esserci è inscindibile da quello dell’esserci, avendo le due tendenze la radice comune nel compiacimento di sè dell’essere stesso. E’ proprio il piacersi nel visto che spinge il veggente a ricongiungersi ad esso, come ogni amante vuole ricongiungersi all’amato, e il non esserci è piuttosto il fatale risultato di questo congiungimento che annulla la visione.
Questo esito fatale si ha però fintanto che la presenza di chi vede si dà soltanto entro il limite del soggetto individuale il quale, bramando ricongiungersi all’oggetto visto, brama di fatto recuperare la totalità perduta nel suo separarsi da essa, tant’è che è proprio nello scambiare il riflesso di sè come particolare con l’esaustività dell’essere totale che il soggetto, nel riunirsi amorosamente ad essa, si perde come presenza, non potendo ancora la totalità essere presente a se stessa come tale.
Sicchè, finchè l’essere continua a vedersi dal punto di vista del soggetto riflessivo individuale che è appunto il punto di vista da cui si vede nell’universo attuale, esso continua a portare in sè il conflitto tra il desiderio di esserci e quello di non esserci; conflitto che lo espone ancora oggi al rischio mortale qualora l’urgenza al ricongiungimento tra il conoscente e il conosciuto prevalesse ancor prima che il conoscente possa fare un ulteriore salto sopra se stesso.
Soltanto al di là di questo salto il rischio sarà per sempre evitato.
Infatti, nel momento in cui l’essere, dal punto di vista del soggetto super-riflessivo, arriverà ad abbracciare la totalità di sè in perenne divenire, il veggente si ricongiungerà al visto salvaguardando la presenza di chi vede.
E nel momento in cui il veggente avrà in se stesso il visto e i due si risolveranno nell’uno che vede se stesso, sarà superato il dubbio dell’essere circa la bontà dell’esserci o quella del non esserci, poichè l’essere potrà infine compiacersi nel suo vedersi, in un interminabile amplesso tra il visto e il veggente, senza più dover reggere la fatica della distanza da se stesso; fatica che ancor oggi lo seduce ad abbandonare la visione.
Il dubbio amletico di Dio è ciò che di fatto ancora oggi ci tormenta, quando il nostro procedere verso la realizzazione del soggetto super-riflessivo, guidati soltanto dalla luce del pensiero, è ostacolato dal peso dell’oggettualità che ci trattiene, e la grande sofferenza che ciò ci procura ci tenta a volte a preferire la morte, a costo di non più vedere, anche se nel contempo non perdiamo la consapevolezza che è soltanto grazie al nostro procedere che si impedisce all’essere di tornare nel buio del suo nulla con il big crash finale del nostro universo.
E ciò che in questi momenti ci risolve il dubbio, se preferire il ritorno al non esserci dell’essere o il suo possibile infinito vedersi, che ancora non si dà perchè sta a noi crearlo e che pertanto non vediamo se non affidandoci al pensiero, è una sorta di fede circa la realizzabilità di questa possibilità che in noi resta tenace al di là di ogni dubbiosità.
Se l’essere è uno, è sempre quest’uno che nel concepirsi in forme nuove le ha di fatto attuate lungo la sua evoluzione a tutt’oggi.
E se la nostra forma è l’oggettivazione del sistema di conoscenza più evoluto, quale punto di arrivo del processo conoscitivo dell’essere, essa è anche il punto di partenza del suo ulteriore concepirsi in altre forme, sì che questo concepirsi dell’essere non si mette in atto se non nel nostro concepirlo.
E se infine riconosciamo in noi stessi l’essere che estrae da sè sempre nuovi modi del suo esserci, non possiamo che avere la certezza che il nostro volere l’attuazione di questo grande salto evolutivo coincide con il potere di attuarlo.
E ciò anche se questa certezza, sul piano della ragione, ancora non ci assolve dal dubbio, sul piano dell’emozione, circa il nostro farcela o non farcela a compiere l’impresa da cui dipende il destino ultimo del nostro universo, sia per la sua definitiva salvezza, sia per la sua definitiva perdizione."

Tratto da: Silvia Montefoschi "La coscienza dell'uomo e il destino dell'universo" ed. Bertani

Silvia Montefoschi


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